La teatralità dell’Alfieri (1983)

Intervista di Filippo Bettini, Walter Binni: nell’Alfieri la teatralità non è una componente fortuita. Fa parte dell’archivio di Binni la pagina a stampa dell’intervista, senza indicazioni di luogo e data; il riferimento al «centenario alfieriano», all’inizio dell’intervista, permette di datarla al 1983, bicentenario dell’Oreste (1783). In questo periodo Filippo Bettini collabora con Binni nella «Rassegna della letteratura italiana».

Intervista sulla teatralità dell’alfieri

Come giudica il modo in cui è stata accolta dal teatro italiano la ricorrenza del centenario alfieriano?

Non mi stupisce che la ricomparsa improvvisa del grande Alfieri sulle scene sia stata prevalentemente annunciata dai giornali (e piú in generale dai grandi mezzi di comunicazione di massa) come «straordinaria», «inaspettata» e persino «curiosa», tra curiosità divertita, subalternità ad una nuova possibile manifestazione di moda, scetticismo di fronte ad un autore impegnativo e certamente scomodo. E dico che non mi stupisce, perché pochi autori come l’Alfieri – poeta e drammaturgo dell’anticonformismo e del dissenso, irriducibile avversario di ogni corte – sono cosí difficilmente congeniali alla nostra epoca tetra e «carnevalesca» (ed uso il termine in senso peggiorativo, al di fuori del senso piú serio della nota formula di Bachtin), dispersa tra tante feste e celebrazioni delle corti e degli intellettuali di corte, creatori del consenso al potere e alle classi egemoni, nel tripudio delle mode e dei metodi effimeri.

A quali cause è dovuto, secondo lei, lo stato di abbandono e di dimenticanza in cui è caduto per molto tempo il teatro alfieriano sulle nostre scene?

Anzitutto, vi sono delle cause di ordine generale legate all’interpretazione corrente dell’Alfieri e al tipo di insegnamento che ne viene fatto a livello scolastico. Nonostante alcuni rimarchevoli contributi della critica (non sostenuti, però, dal necessario alimento della rappresentazione teatrale), l’Alfieri continua, ancora oggi, presso larghi strati di pubblico, ad essere considerato irrimediabilmente perduto e lontano, secondo un’interpretazione che, piú o meno consapevolmente, è rimasta ancorata, nel profondo, a miti retorici e nazionalistici o ad un genere di lettura «idealistica» che risulta del tutto fuorviante per comprendere la vera grandezza del massimo drammaturgo della nostra tradizione. Contro l’Alfieri convergono, poi, altri fattori: lo snobismo provinciale che lo trova ben poco «europeo», la grande fortuna teatrale del Goldoni (prima a livello realistico-populistico, poi nelle misure del gioco mimico e delle «inquietudini» contemporanee) assurdamente opposto manicheisticamente all’Alfieri, lo stanco riflesso di certo rifiuto della contestazione giovanile che trovava pregiudizialmente Alfieri reazionario e chiuso nella necropoli del passato, anche in relazione a certe decurtazioni brutali della critica sociologica, priva del senso del valore poetico o perfino propensa a ridurre l’Alfieri ad un «caso di ossianismo piemontese».

Pensa che possano avere avuto un peso determinante anche le difficoltà tecniche e materiali che di solito s’incontrano nella messa in scena di un autore come l’Alfieri?

Certamente, l’Alfieri è un autore molto difficile e complesso e, nel momento in cui deve essere rappresentato, richiede da parte dei registi e degli attori un grande sforzo intellettuale e artistico, un costante lavoro di interpretazione rigorosa e puntuale del testo, una forma di recitazione profonda e consapevole e, aggiungerei, persino, un’indispensabile preparazione critica e culturale, senza di cui sfugge, a qualsiasi operatore teatrale, l’esatta portata conoscitiva e poetica del teatro alfieriano. Ma direi che un teatro di qualità (un teatro che meriti di essere chiamato tale) è oggi chiamato a superare queste difficoltà e a cimentarsi, in modo determinato e capillare, con un autore che, per certi versi, sembra mettere alla prova le stesse capacità interpretative e rappresentative del fatto scenico, riproponendo la centralità dell’ineludibile problema del rapporto oggi esistente tra il testo letterario e la sua messa in scena.

In ogni caso, non sono mancate rappresentazioni valide e stimolanti di opere alfieriane, almeno nel passato e in qualche sporadica ripresa dell’ultimo anno...

Risalgono a molti anni fa le meritorie prestazioni di registi come Costa, Visconti, Giovampietro e Gassman, dei quali gli ultimi due, proprio di recente, sono tornati a riflettere sulla proposta di nuovi lavori tratti dal repertorio del teatro alfieriano. E ad essi si deve riconoscere, senz’altro, il merito di non avere lasciato cadere l’interesse dell’arte e del pubblico per il drammaturgo astigiano, di averne portato alla luce alcuni motivi essenziali di attualità ideale e di vitalità teatrale, di avere promosso una rilettura scenica dell’Alfieri che si presta, ancora, ad essere ripresa e sviluppata (e questo, in alcuni casi, è avvenuto anche con il supporto d’una straordinaria interpretazione attorale, come si è verificato per il caso di Gassman). Tuttavia, fatte salve queste, pur notevoli, eccezioni, bisogna riconoscere che, negli ultimi anni, si è dovuto assistere ad un forte fenomeno di declino e di abbassamento (anche qualitativo) dell’interesse del teatro nei confronti dell’Alfieri e che tale processo è stato, per molti versi, una spia sintomatica, una convalida indiretta dello stato di crisi e di disorientamento che ha attraversato il teatro «ufficiale» italiano dalla metà degli anni Sessanta fino ad oggi. Come dimostra, per altro, il fatto che al diradamento delle rappresentazioni sceniche è, negativamente, corrisposta una pericolosa tendenza a ridurre il linguaggio pregnante dell’opera teatrale alfieriana in pure e semplici versioni prosastiche e prosaiche.

Qual è, a suo parere, il punto fondamentale di partenza da cui può, oggi, riprendere le mosse un’opera corretta e contributiva di rilettura e di rappresentazione dell’Alfieri in termini teatrali?

È, a mio avviso, la comprensione che nel teatro alfieriano l’aspetto propriamente teatrale non costituisce una componente fortuita e accessoria, ma assolve, invece, una funzione essenziale e produttiva nel quadro degli stessi valori artistici e poetici della sua opera. Si tratta di penetrare fino in fondo il senso che assume per l’Alfieri la scelta del genere «tragico-teatrale» e di restituirlo nella sua interezza: tutt’altro che l’errore classicistico di un lirico che per forza volontaristica si fa drammaturgo, tutt’altro che la scelta di un genere passivamente accettato dal gusto del secolo che, di fatto, lo contraddiceva (si pensi solo alle mediocri tragedie di Voltaire, alla congenialità del «lieto fine» e dell’«idillio»). In realtà, tutto in Alfieri concorre alla soluzione tragico-teatrale e la prepara e accompagna nella sua necessaria poetica di recitazione e di rappresentazione, in cui egli predispone il linguaggio stesso alla dizione e non alla lettura. E proprio per questo, penso che il regista teatrale, nella fase della messa in scena, debba ridurre al minimo impropri soccorsi sontuosi e concentrare gli stessi mezzi scenici sull’atmosfera essenziale affocata e soffocante delle passioni e del loro sviluppo in parole dette (e non lette) con il massimo della loro espressività-impressività semantica, rifuggendo dall’aborrita melodia, dal cantabile («dire adagio, cioè con intelligenza, cose che meritano di essere ascoltate», dice l’Alfieri regista di se stesso) e dal secco discorsivo volterriano con cui lo stesso Alfieri aveva fatto braccio di ferro con la Merope, all’epoca del Saul, sotto la piú facile scommessa con la Merope del Maffei.